Giovanni Mosca
Mosca, Giovanni. - Nacque a Roma il 14 luglio 1908 da Benedetto, impiegato dello Stato, e da Emma Ugolini, che morì durante il parto. Esordì come vignettista inconsapevole a 16 anni, nel 1924.
Era stato appena ritrovato (il 16 agosto) il cadavere di Giacomo Matteotti, rapito il 10 giugno di quell'anno, e il turbamento nel Paese era profondo. Emotivamente coinvolto, il giovane Mosca disegnò un grande cane poliziotto che trascinava un carabiniere nel luogo dov'era sepolto il corpo e aggiunse la scritta «Mussolini, cave canem!»; attaccò la vignetta sulla statua di Pasquino nell'omonima piazza romana, dove rimase affissa per una settimana. Un disegnatore del giornale antifascista Il becco giallo, testata appena fondata da Alberto Giannini, la vide e la pubblicò in prima pagina. Mosca, orgoglioso, portò il giornale al padre, il quale, ignaro che la vignetta fosse del figlio, ne elogiò ammirato l'autore coraggioso, ma poi strappò il giornale, ordinandogli di non occuparsi mai di politica.
La conquista della V c
(da Ricordi di Scuola, Cap. II)
Avevo vent'anni quando, tenendo nella tasca del petto la lettera di nomina a maestro provvisorio, e sopra la tasca la mano, forte forte, tanto era la paura di perdere quella lettera così sospirata, mi presentai alla scuola indicata e chiesi del Direttore. Il cuore mi faceva balzi enormi. «Chi sei?», mi domandò la segretaria. «A quest'ora il signor Direttore riceve solo gli insegnanti». «So... sono appunto il nuovo maestro...» dissi, e le feci vedere la lettera. La segretaria, gemendo, entrò dal Direttore il quale subito dopo uscì, mi vide, si mise le mani sui capelli. «Ma che fanno», gridò, «al Provveditorato? Mi mandano un ragazzino quando ho bisogno di un uomo con grinta baffi e barba da Mangiafuoco, capace di mettere finalmente a posto quei quaranta diavoli scatenati! Un ragazzino invece... Ma questo, appena lo vedono, se lo mangiano!» Poi, comprendendo che quello era tutt'altro che il modo migliore di incoraggiarmi, abbassò il tono di voce, mi sorrise e, battendomi una mano sulla spalla: «Avete vent'anni?», disse. «Ci credo, perché altrimenti non vi avrebbero nominato; ma ne dimostrate sedici. Più che un maestro sembrate un alunno di quinta che abbia ripetuto parecchie volte. E questo, non ve lo nascondo, mi preoccupa molto. Non sarà uno sbaglio del Provveditorato? C'è proprio scritto Scuola "Dante Alighieri"?». «Ecco qui», dissi mostrando la lettera di nomina. «"Scuola Dante Alighieri"». «Che Iddio ce la mandi buona!», esclamò il Direttore. «Sono ragazzi che nessuno, finora, è riuscito a domare. Quaranta diavoli, organizzati, armati, hanno un capo, si chiama Guerreschi; l'ultimo maestro, anziano, e conosciuto per la sua autorità, se n'è andato via ieri, piangendo, e ha chiesto il trasferimento...». Mi guardò in faccia, con sfiducia: «Se aveste almeno i baffi...», mormorò. Feci un gesto, come dire ch'era impossibile, non mi crescevano. Alzò gli occhi al cielo: «Venite», disse.
Percorremmo un lungo
corridoio fiancheggiato da classi: quarta D, quinta A, quinta B... quinta
C...«E' qui che dovete entrare» disse il direttore fermandosi dinanzi alla
porta della V C dalla quale sarebbe poco dire che veniva chiasso: si udivano
grida, crepitiidi pallini di piombo sulla lavagna, spari di pistole a cento
colpi, canti, rumore di banchi smossi e trascinati. «Credo che costruiscano barricate»,
disse il Direttore. Mi strinse forte un braccio, se n'andò per non vedere, e mi
lasciò solo davanti alla porta della V C.
Se non l'avessi sospirata per un anno, quella nomina, se non avessi avuto, per me e per la mia famiglia, una enorme necessità di quello stipendio, forse me ne sarei andato, zitto zitto, e ancora oggi, probabilmente la V C della scuola "Dante Alighieri" sarebbe in attesa del suo dominatore: ma mio padre, mia madre, i miei fratelli attendevano impazienti, con forchetta e coltelli, ch'io riempissi i loro piatti vuoti; perciò aprii quella porta ed entrai. Improvvisamente silenzio. Ne approfittai per richiudere la porta e salire sulla cattedra. Seduti sui banchi, forse sorpresi dal mio aspetto giovanile, non sapendo ancora bene se fossi un ragazzo o un maestro, quaranta ragazzi mi fissavano minacciosamente. Era il silenzio che precede le battaglie.
Di fuori era primavera; gli alberi del giardino avevano messo le prime foglioline verdi, e i rami, mossi dal vento, carezzavano i vetri delle finestre. Strinsi i pugni, feci forza a me stesso per non dire niente: una parola sola avrebbe rotto l'incanto, e io dovevo aspettare, non precipitare gli avvenimenti. I ragazzi mi fissavano, io li fissavo a mia volta come il domatore fissa i leoni, e immediatamente compresi che il capo, quel Guerreschi, di cui mi aveva parlato il Direttore, era il ragazzo di prima fila, - piccolissimo, testa rapata, due denti in meno, occhietti piccoli e feroci - che palleggiava da una mano all'altra un'arancia e mi guardava la fronte. Si capiva benissimo che nei riguardi del saporito frutto egli non aveva intenzioni mangerecce. Il momento era venuto.
Guerreschi mandò un grido, strinse l'arancia nella destra, tirò indietro il braccio, lanciò il frutto, io scansai appena il capo, l'arancia s'infranse alle mie spalle, contro la parete. Primo scacco: forse era la prima volta che Guerreschi sbagliava un tiro con le arance, e io non m'ero spaventato, non m'ero chinato: avevo appena appena scansato il capo, di quel poco che era necessario. Ma non era finita. Inferocito, Guerreschi si drizzò in piedi e mi puntò contro -caricata a palline di carta inzuppate con saliva - la sua fionda di elastico rosso. Era il segnale: quasi contemporaneamente gli altri trentanove si drizzarono in piedi, puntando a loro volta le fionde, ma d'elastico comune, non rosso, perché quello era il colore del capo. Mi sembrò di essere un fratello Bandiera. Il silenzio si era fatto più forte, intenso. I rami carezzavano sempre i vetri delle finestre, dolcemente. Si udì d'improvviso, ingigantito dal silenzio, un ronzio: un moscone era entrato nella classe e quel moscone fu la mia salvezza. Vidi Guerreschi con un occhio guardare sempre me, ma con l'altro cercare il moscone, e gli altri fecero altrettanto, sino a che lo scoprirono, e io capii la lotta che si combatteva in quei cuori: il maestro o l'insetto? Tanto può la vista di un moscone sui ragazzi delle scuole elementari. Lo conoscevo bene il fascino di questo insetto: ero fresco di studi e neanch'io riuscivo ancora a rimanere completamente insensibile alla vista di un moscone. Improvvisamente dissi: «Guerreschi» (il ragazzo sobbalzò, meravigliato che conoscessi il suo cognome), «ti sentiresti capace, con un colpo di fionda, di abbattere quel moscone?» «Èil mio mestiere», rispose Guerreschi, con un sorriso. Un mormorio corse tra i compagni. Le fionde puntate contro di me si abbassarono, e tutti gli occhi furono per Guerreschi che, uscito dal banco, prese di mira il moscone, lo seguì, la pallina di carta fece den! contro una lampadina, e il moscone, tranquillo, continuò a ronzare come un aeroplano. A me la fionda!», dissi. Masticai a lungo un pezzo di carta, ne feci una palla e, con la fionda di Guerreschi, presi, a mia volta, di mira il moscone. La mia salvezza, il mio futuro prestigio erano completamente affidati a quel colpo. Indugiai a lungo, prima di tirare: «Ricordati», dissi a me stesso, «di quando eri scolaro e nessuno ti superava nell'arte di colpire i mosconi». Poi, con mano ferma, lasciai andare l'elastico: il ronzio cessò di colpo e il moscone cadde morto ai miei piedi. «La fionda di Guerreschi», dissi, tornando immediatamente sulla cattedra e mostrando l'elastico rosso. «è qui, nelle mie mani. Ora aspetto le altre». Si levò un mormorio, ma più d'ammirazione che di ostilità: e a uno a uno, a capo chino, senza il coraggio di sostenere il mio sguardo, i ragazzi sfilarono davanti alla cattedra, sulla quale, in breve, quaranta fionde si trovarono ammonticchiate. Non commisi la debolezza di far vedere che assaporavo il trionfo. Calmo calmo, come se nulla fosse avvenuto: "Cominciamo a ripassare i verbi" dissi "Guerreschi, alla lavagna". Gli diedi il gesso:"Presente del verbo essere" cominciai a dettare "io sono, tu sei..." E così di seguito, mentre gli altri, buoni buoni, ricopiavano sui quaderni, in bella calligrafia, quanto Guerreschi, capo vinto e debellato, andava scrivendo sulla lavagna.
E il Direttore?. Temendo, forse, dall'insolito silenzio, che io fossi stato fatto prigioniero e imbavagliato da quaranta demoni, entrò a un certo punto in classe e fu un miracolo se riuscì a soffocare un grido di meraviglia. Più tardi, usciti i ragazzi, mi domandò come avessi fatto, ma si dovette accontentare di una risposta vaga: "Sono entrato nelle loro simpatie, signor Direttore". Non gli potevo dire che avevo ucciso un moscone con un colpo di fionda: ciò non rientrava nei metodi scolastici previsti dalle teorie e dai regolamenti.