Patrizia Invernizzi Di Giorgio: In Dad

06.04.2021

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In Dad

Non ricordava nemmeno il giorno in cui la scuola era stata chiusa per il coronavirus.

All'inizio non gli pareva vero, quale ragazzo non sarebbe stato contento?

Aveva assaporato la libertà di andare a dormire tardi, di essere solo in casa e di poter gestire il pomeriggio come voleva. Poi era subentrata la routine: i giorni si susseguivano sempre uguali e il piacere era diventato abitudine. Il mattino era occupato dalla scuola, più monotona di quella in presenza. Alle otto si sedeva davanti allo schermo ancora in pigiama e partiva la videolezione. Gli insegnanti erano stati colti alla sprovvista e ancora si dovevano abituare; comparivano a mezzo busto e gli strani sorrisetti, simili a smorfie, rivelavano il loro imbarazzo. Si sentivano più esposti che in classe al giudizio degli altri e soprattutto soli. Le prof si truccavano di più, come se fossero invitate ad un talk-show. I volti dei compagni, in formato foto tessera, apparivano sui tasselli dello schermo, insolitamente calmi e intervenivano solo quando l'insegnante, cliccando, concedeva loro la parola.

Il vantaggio era che si poteva seguire meglio, non c'era il solito rumore di sottofondo delle chiacchiere, delle risatine, dei calci alle gambe dei banchi e dei pugni a tradimento sulla schiena, ma era proprio quello il bello della scuola, in questo modo ci si annoiava e dopo un po' avrebbe voluto spegnere il computer. I compagni erano visibili, ma inafferrabili in quello spazio virtuale.

Non gli mancavano, gli insegnanti non avevano fatto nulla per farli socializzare in quel primo anno delle superiori, quando ancora non si conoscevano.

All'uscita dalla scuola tuttavia si formavano alcuni gruppetti, perlopiù si trattava di ragazzi, che alle medie erano stati nella stessa sezione. Non riusciva ad inserirsi, sapeva di essere un ragazzo chiuso, introverso, si sentiva emarginato e scappava subito a casa.

Nelle prime due settimane, con Luca, l'amico fedele fin dalle elementari, aveva fatto qualche giro in bici lungo l'argine o in centro, a guardare le vetrine dei negozi di abbigliamento; avevano sempre qualcosa da raccontarsi o di cui parlare. Poi era finita, la scusa era che i compiti erano molti, ma entrambi sapevano che in realtà avevano sempre meno voglia di uscire.

Con l'arrivo della primavera, gli alberi del giardino condominiale erano tutti in fiore e il prato punteggiato di margherite. Non si era più affacciato alla finestra dello studio dove stava il computer, apriva distrattamente solo quella della sua camera, quando doveva farsi il letto.

Il pomeriggio, dopo i compiti, pochi perché i prof, compassionevoli, non volevano caricarli anche di quel peso, andava su Youtube per guardare gli Youtuber; gli piacevano quelli fuori di testa, che mettevano video strani o quelli che facevano divertire. Poi si buttava sui videogiochi; richiedevano molta attenzione, riflessi pronti e un po' di strategia, era il suo modo per non pensare. Più tardi guardava wathsapp, chattava con qualcuno conosciuto in rete e con Linda, un'amica delle medie, che condivideva la sua passione per la moda.

Diventava di giorno in giorno, quasi senza accorgersene, sempre più apatico, sprofondava nel divano come in buco nero e a volte dormicchiava, raggomitolato nel plaid come nella coperta di Linus. Alla sera guardava il TG; allora di fronte ai numeri del contagio, alle immagini raccapriccianti della terapia intensiva, a quell'Italia in rosso e arancione, che erano guarda caso i suoi colori preferiti, scattava la paura. Temeva per i nonni, per Luca, ma durava poco, riusciva a contenerla.

Pensava alla casa come a una confortevole cella per mafiosi o piuttosto come a una scatola cinese. Pareti, pavimenti e soffitto, dentro il cellulare, la play e la Tv e infine una piccola, insignificante scatola con dentro lui. Sarebbe finita la pandemia e avrebbe ripreso gli allenamenti, a cui teneva molto. Una cosa era certa: aveva perduto la chiave della casa-scatola, non poteva aprire, ma si era abituato e forse un po' lo voleva.