Patrizia Invernizzi Di Giorgio: Rosso
Rosso
La prima infanzia l'ho trascorsa a Gonzaga, un piccolo paese agricolo, in provincia di Mantova. Abitavo con la mamma e la nonna in una vecchia casa di campagna, dai muri scrostati. Al primo piano c'era la cucina: un lavandino di pietra, una stufa a legna, un tavolo con le sedie e le pareti annerite dal fumo.
Solo di sera si saliva al piano superiore per dormire. Nelle due camere da letto non c'era la stufa; mentre mi spogliavo in fretta, sentivo gli aghi del freddo pungermi la carne e mi rannicchiavo sotto le coperte, intiepidite dallo scaldino.
L'inverno era lungo, passavo da una malattia all'altra e all'asilo non ci andavo quasi mai. In primavera, in cucina, dagli interstizi del pavimento uscivano gli scarafaggi in processione, formavano lunghe file o si ammucchiavano accanto al lavandino, seguendo geometrie incomprensibili; io provavo ribrezzo, li schivavo come potevo. La nonna cercava di debellarli con il limone, poi provava con l'aceto, ma finiva sempre per ricorrere all'insetticida: il famigerato flit, un grande tubo con uno stantuffo, che sparava una bianca polvere killer.
Sarà stato per gli scarafaggi, o più semplicemente per il desiderio di aria e di sole, ma con l'affacciarsi della bella stagione stavo il più possibile in giardino. Disegnavo sopra un vecchio tavolino, o giocavo con la bambola o con la palla, immaginando che con me ci fosse un'amica. La fantasia è capace di inventare qualsiasi cosa, pur di vincere la solitudine!
I giochi mi prendevano e quasi non mi accorgevo che spuntavano i primi timidi fiori, che l'erba cresceva e il ciliegio diventava una nuvola bianca.
In maggio però i rami si riempivano di frutti rossi dal colore acceso, sembravano quasi addobbi per l'albero, un curioso albero di natale di inizio estate. Assaggiavo una, due ciliegie, ma poi la nonna interveniva a proibirmelo. Sembrava più vecchia della sua età, perché si vestiva di scuro, aveva i capelli bianchi e non si curava affatto, come molte donne a quel tempo. Con me era dolce e disponibile, mi leggeva una quantità di fiabe, mi stringeva e mi baciava, se mi vedeva triste, ma quando si trattava di regole, diventava intransigente, un feldmaresciallo.
Anche se l'acqua era fredda, ci si doveva lavare accuratamente da cima a fondo, a tavola non si doveva masticare rumorosamente, né appoggiare i gomiti sul tavolo e quando si faceva il letto, le lenzuola dovevano essere tese allo spasimo e il copriletto ripiegato con precisione matematica.
Quanto alle abitudini alimentari, si poteva, anzi si doveva assaggiare tutto, tranne la cioccolata, il gelato e le ciliegie, questi tre alimenti per la nonna erano autentici veleni. Potevo quindi toccare le ciliegie, farne degli orecchini, ma metterle in bocca no, per nessuna ragione!
"Le ciliegie infiammano!" sentenziava la nonna e io non sapevo né il come né il perché, ma immaginavo che quel rosso contenesse un fuoco misterioso. La proibizione aveva l'effetto di suscitare in me un'attrazione irresistibile, rispetto alla quale il frutto del bene e del male, che Eva aveva offerto ad Adamo si poteva considerare una bazzecola.
Era l'estate del 1954, quando morì la bisnonna; la mamma e la nonna dovevano recarsi a Verona per il funerale e decisero di lasciarmi alla Fernanda. Fernanda era una robusta ragazza di campagna, veniva a fare le pulizie una volta la settimana e il suo carattere allegro e docile le aveva permesso di sopportare il tono imperativo, con cui la nonna impartiva gli ordini, e la perfezione che pretendeva nell'esecuzione dei lavori. A Luglio partiva per le risaie, andava a fare la mondina, con le gambe nell'acqua tutto il giorno e la schiena piegata ad estirpare le erbacce che infestavano le piantine di riso. Quando la nonna usciva per fare la spesa, si fermava un attimo, mi prendeva sulle ginocchia e mi cantava le canzoni delle mondine, io ascoltavo la sua voce robusta e ferma, che a tratti nel ricordare si velava di malinconia.
Fernanda era abituata a lavorare sodo, per lei il lavoro, per quanto faticoso, era comunque un fatto naturale. Si viveva per lavorare e si lavorava per vivere, era e sarebbe stato sempre così.
Quella domenica mattina rimanemmo sole, io e lei; mi portò a fare una passeggiata lungo una stradina che si inoltrava tra i campi e raccogliemmo i fiordalisi e i primi papaveri, che spuntavano tra l'oro delle spighe. A casa cucinò la pasta e due fettine di carne, poi disse: "Là fuori ci sono le ciliegie da mangiare!" replicai: "Fernanda, non si può, la nonna dice che sono come il veleno!" "Non è mica tutta giusta la tua nonna - ribatté lei - io le ho sempre mangiate e sono sana come un pesce e poi...una ciliegia tira l'altra proprio come i baci, dai su, vieni!"
Prese una grande terrina e ci precipitammo a raccoglierle, poi ci mettemmo a mangiarle sul tavolino sgangherato, lì fuori nel sole, facendo a gara a chi ne mangiava di più. La montagna di grappoli, di un rosso vivo e lucente, si assottigliò in fretta e in breve anche le nostre mani e le bocche diventarono rosse. Non ricordavo di aver mangiato un frutto così gustoso, eravamo allegre, Fernanda un po' cantava e un po' raccontava di quando andava a mondare il riso, dei giovanotti che aveva conosciuto in quel paese e dei complimenti che le facevano. Non so quanto tempo passò, non mi importava, ero felice. La terrina ora era vuota e c'era un bel mucchio di noccioli, che Fernanda si affrettò a far sparire dentro la siepe. Lei aveva qualche faccenda da sbrigare in casa, io restai ancora fuori a saltare la corda, mi scalmanai, dato che non c'era la nonna a ricordarmi che non dovevo sudare. Rientrai in casa a pomeriggio inoltrato, mi sentivo stanca e avevo la pancia gonfia, ben presto cominciò a salirmi la febbre, ero rossa, scottavo e la testa mi faceva un gran male. Fernanda mi spogliò e mi mise a letto, la sua allegria era sparita, aveva paura e non sapeva cosa fare, mi diede da bere e mi mise una pezza bagnata sulla testa.
Quando arrivarono le due donne, le distinsi appena, la vista era annebbiata. Sentivo che mettevano sotto torchio la ragazza per capire cosa era successo e infine vidi il volto arrabbiato di mia nonna, che diceva: "Macché giornata tranquilla! Avrà sudato, ne avrà fatte di tutti i colori con questa scriteriata qui!", mentre Fernanda cercava di giustificarsi e scoppiava in un pianto disperato. Chinato su di me vedevo il volto di mia madre farsi sempre più pallido, poi la sentii dire con una voce da oltretomba: "Non è perché ha corso tanto, questa è la poliomielite, in paese c'è l'epidemia.... oh dio resterà zoppa come il figlio del capostazione!" poi si mise a singhiozzare, bagnandomi le mani ed il viso. La nonna corse a mettersi il cappotto per andare a chiamare il medico, fu allora che capii che non potevo tacere il misfatto. Feci appello alle poche energie che mi restavano e mormorai: "Le ciliegie...... sono state le ciliegie". La mamma disse." "Come...le ciliegie?!" Io mi scoprii la pancia e apparve un ventre gonfio, che gorgogliava. Tutto fu chiaro, la mamma e la nonna tirarono un gran respiro di sollievo. Quel che segue potete immaginarlo: io sperimentai che cos'è l'olio di ricino e Fernanda non tornò più, con lei sparì anche quella ventata di giovane allegria, che aveva portato nella nostra casa. Una volta cresciuta ho potuto mangiare quante ciliegie volevo, ma ogni volta che vedo il loro rosso brillante e gusto quella polpa succosa, non posso fare a meno di sentire in bocca un retrogusto amaro.